Ricordo di p. Agostino Gemelli a 60 anni dalla scomparsa

Il 15 luglio 1959, 60 anni fa, si spegneva padre Agostino Gemelli fondatore e primo rettore dell'Università Cattolica del Sacro Cuore e noi Medici Cattolici vogliamo ricordarlo con uno dei suoi scritti più significativi e che ancora oggi presenta alcuni spunti di grande attualità che ci devono far riflettere.


I cattolici italiani aspirano ad avere una loro Facoltà di medicina perché in molti villaggi, in molte città vi siano medici che considerino l’esercizio della loro professione come una nobile arte che ha per fine di alleviare le sofferenze di un fratello in Cristo. Ma, può dire taluno, per curare non c’è bisogno di essere cristiani; basta conoscere la tecnica della diagnosi e dei mezzi terapeutici.

Il medico, fornito di una buona preparazione clinica e terapeutica può essere un ottimo medico anche se non pratica la vita cristiana dei sacramenti. Nessuno può negare questo.

Ma in questi ultimi tempi in numerosi congressi si sono levate alte le voci per affermare che il malato in una corsia di ospedale ben raramente è considerato come una persona; è invece un numero, uno dei tanti; e questo infelice sperimenta com’è dolorosa la situazione del povero che non può farsi curare dai familiari e deve ricorrere alle cure dell’ospedale.

Medico cristiano vuol dire infermiere cristiano; vuol dire un’atmosfera della corsia d’ospedale in cui il malato riconosce che vi è un legame tra lui, sventurata vittima o di un trauma fisico o dell’insidia di una infezione o vittima dell’usura della vita, e coloro che lo curano.

Il malato vede nelle loro parole e nei loro gesti un gesto del Samaritano e l’anima si apre alla più profonda e sincera gratitudine e alle maggiori speranze. Anche questo giova a dare quella serenità che è pur necessaria per l’efficacia degli interventi terapeutici.

Noi cattolici vogliamo dunque una Facoltà medica cattolica, perché siamo, per grazia di Dio, in un paese cattolico, e vogliamo che la carità che si ispira al nome di Cristo venga esercitata per i nostri malati in guisa da sollevarli dalla tristezza in cui la malattia li ha costretti.

È un sogno questo della Facoltà di medicina? È un sogno vano? Una illusione? Proprio alle soglie della mia conversione, mentre prestavo servizio militare — ero allora semplice caporale di sanità, ma ero medico — mi venne affidata la direzione di un reparto in cui erano ricoverati gli infettivi.

Era un lurido edificio, oggi scomparso; al suo posto è stato eretto l’Ambrosianum, un edificio della Università Cattolica ove sono alcune vaste aule e alcuni istituti scientifici. I medici dell’ospedale militare, che aveva sede nell’edificio ove oggi è l’Università cattolica del sacro Cuore, mal volentieri prestavano servizio in quel ripugnante reparto, ove rari erano i malati, ma tali che l’opera del medico era per lo più vana.

Io accettai con gioia la proposta del colonnello medico direttore dell’ospedale di dirigere quel reparto e mi dedicai con ogni cura a ripulire l’ambiente e ad assistere i malati, facendo molte volte quello che gli infermieri, che erano dei soldati, o non sapevano fare o facevano tale per ripugnanza. Un giorno portarono nel reparto un soldato di cavalleria nel quale la tubercolosi aveva fatto opera vasta di devastazione.

Egli stesso sapeva che quella camera in cui venne collocato era l’anticamera della morte. Alla visita serale di uno dei giorni seguenti, quel malato, un abruzzese semianalfabeta, mi disse: «Senti, volontario (ero, come si soleva fare, allora, volontario d’un anno); io muoio lontano da tutti i miei. Se fosse qui mia mamma mi darebbe un bacio. Me lo vuoi dare tu?».

Confesso che nell’interno dell’anima ho combattuto una battaglia breve ma dura. Il malato era coperto di piaghe; ad ogni istante rovesciava. Io, che ero all’inizio del processo della mia conversione, mi sono detto: «Sei un vile; che cosa farebbe Gesù Cristo che è morto per gli uomini?». E abbracciai e baciai quel morente, sul cui volto apparve un sorriso, come un raggio di sole.

«Grazie, mi disse, ora vai a chiamarmi il cappellano perché mi porti la Comunione». Quando il cappellano udì la mia richiesta, stralunò gli occhi, perché era la prima volta che mettevo piede in quella cappella; mi disse: «Vengo subito».

Io per la prima volta feci da chierichetto, un chierichetto che non sapeva dire una parola per rispondere alle preghiere del sacerdote. Mai, però, come quella volta compresi che l’esercizio della medicina è anche un sacerdozio. Perciò oggi prego perché Dio conceda alla Università, intitolata al suo soavissimo Cuore, la Facoltà di medicina.

p. Agostino Gemelli