Dialoghi tra vita e morte:
a che punto è la notte?
Presentazione
C’è un tempo per vivere e un tempo per morire. Ci stiamo abituando a chiamare “fine vita” il crocevia dell’incontro vita-morte. Ma “fine” non è giusto nome, né per la morte né per la vita. La vita umana sta nel mondo dell’essere, e non è solo carne ma spirito. La morte vince la vita strappandola dal tempo, ma la vita trapassa la morte per un Oltre che è rivincita definitiva.
C’è una visione della morte nemica. Nell’esperienza umana, la vita è bene e desiderio, la morte è male e sconfitta. L’istinto di vita ci mette in difesa, in lotta. La scienza medica ci soccorre; quante vittorie nella storia di questo prodigioso mestiere. Quante vite in salvo, protette, guarite: quante invenzioni, farmaci, vaccini, chirurgie, trapianti, devices tecnologici, terapie di sostentamento vitale e chissà quali altre a venire.
Pure, gli umani miracoli delle cure alla fine si arrendono. Ed è il momento della verità, quando il senso dell’esistenza è al bivio di un quesito ultimo, se la vita sia cosa che si perde o si compie. Se la morte nemica la annienti, o la morte sorella le apra una soglia dove la vita non ha fine. Persino chi nega, o rinnega, domande così, avverte che la vita ha una sua infinita dignità in tutto il suo corso, e che un fondamentale principio etico chiede la sua protezione. Senza accanimento in terapie futili. Ma né suicidio né eutanasia sono eticamente accettabili.
In questo periodo si è acceso in Italia un dibattito sul suicidio assistito, originato da alcuni processi penali e da sentenze della Corte costituzionale. Con un equivoco di fondo, nel dialogo discorde fra ideologia e norma giuridica. L’ideologia radicale festeggia la morte volontaria come libertà (“liberi fino all’ultimo di decidere quando e come morire”), con un attivismo che vuol far breccia nelle norme di tutela della vita. Proprio una di queste norme è l’art. 580 del codice penale che punisce l’istigazione al suicidio, e l’aiuto al suicidio.
Ciò che si è discusso e deciso davanti alla Consulta è se chi aiuta un altro a suicidarsi sia punibile. Il responso è stato che solo in un caso eccezionale la pena non si applica: quando l’aiuto è dato a un soggetto con una patologia irreversibile, fonte di sofferenze fisiche o psicologiche intollerabili, tenuto in vita da trattamenti di sostegno vitale, pienamente capace di prendere decisioni libere e consapevoli. Si badi: la Corte ha tolto la pena di dosso all’aiutante, ma non ha affatto cambiato il suicidio in una opzione, con obbligo altrui di aiuto. Il suicidio resta un disvalore sociale. Se il suicidio fosse un diritto non avrebbe senso punire l’istigazione di qualcuno a esercitare il suo diritto. E invece l’istigazione resta delitto grave, con pena grave. E del pari la stessa pena resta per il delitto d’aiuto, in tutti i casi tranne l’eccezione che s’è detta.
Naturalmente per accertare tali situazioni occorre un esame in ambito sanitario, con regole che il Parlamento è stato più volte sollecitato a dettare e non ha fatto. Ma Resta urgente correggere la deriva che nell’opinione pubblica va assumendo la propaganda eutanasica come progresso libertario. C’è l’insidia di sofismi sull’ordine giuridico, e poi il rischio dello scarto dei deboli in luogo della cura. Qualche parola testuale può correggere l’ignoranza: scrive la Corte che dalla Costituzione discende “il dovere dello Stato di tutelare la vita di ogni individuo, non quello, diametralmente opposto, di riconoscere all’individuo la possibilità di ottenere dallo Stato o da terzi un aiuto a morire”. Ancora: non esiste un “diritto a morire”, viceversa il diritto alla vita “si colloca in posizione apicale nell’ambito dei diritti fondamentali della persona” e appartiene “all’essenza dei valori supremi sui quali si fonda la Costituzione italiana”. E c’è il monito, lo scopo, il compito “di tutelare le persone che attraversano difficoltà e sofferenze, anche per scongiurare il pericolo che coloro che decidono di porre in atto il gesto estremo e irreversibile del suicidio subiscano interferenze di ogni genere.”
Com’è diversa la visione di un malato che quando le terapie sono in ipotesi divenute sproporzionate, e solo prolungano in modo precario e penoso la vita giunta al suo epilogo si affida in buona coscienza alle cure palliative, cui ha davvero diritto, con accompagnamento solidale fino all’ultimo.